Non ricordo altro. Rivedo me stessa gettata a terra, allontanata col piede come un oggetto immondo, e risento un flutto di parole infami, liquido e bollente come piombo fuso. Colla faccia sul pavimento, un’idea mi balenò. Mi avrebbe uccisa? Con una strana calma mi chiesi se l’anima mia sarebbe mai stata raggiunta in qualche parte dalle anime di mia madre e di mio figlio.
Ed ho il confuso senso della disperata ira che mi assalse quando, dopo una notte inenarrabile[112] in cui il mio viso ricevette a volta a volta sputi e baci, e il mio corpo divenne null’altro che un povero involucro inanimato, mi sentii proporre una simulazione di suicidio.... «Bisogna che io ti faccia morire di mia mano; ma non voglio andar in galera: devo far credere che ti sei data la morte da te stessa...»
Ira silenziosa e vana, disperazione spasmodica, agonia atroce, ombre di follia.... Giorni, settimane. Tutto è avvolto di grigio; non distinguo più la successione delle sofferenze, dei deliri, delle soste di stupefazione. Mio padre, informato, era riuscito col dottore a persuadere l’uomo pazzo ed insieme vile a perdonarmi, a credere che tutto non era se non aberrazione momentanea. Mia cognata, mia suocera, avevan toccato il tasto dello scandalo: ogni cosa, piuttosto che la pubblicità di quell’onta! E, insieme, tutta questa gente mi circondava come in un sogno mostruoso: tutti mi credevano una bestia immonda, e tutti mi risparmiavano per viltà.
Ogni notte di me si faceva strazio; ogni giorno eran scene di rimpianto, eran promesse di calma, di oblìo. Mettevo paura?
E intanto la vita esterna doveva apparire immutata. Dovevo uscire a fianco di mio marito e talvolta fra noi era il bimbo; il dolce fiore sorrideva fra due che s’odiavano.
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