Maggio dei Libri 2020. Rassegna letteraria: i luoghi del territorio metropolitano nelle grandi opere della Letteratura

logo maggio dei libri 2020.png

.

          (B.C.M.R. CASS 48)

 

Bellonci. Castelnuovo di Porto.
Il 6 gennaio 1502, Lucrezia Borgia, seguita da un allegro e sontuoso corteo, lasciava Roma alla volta di Ferrara per incontrare il suo sposo, Alfonso d'Este, figlio primogenito del duca Ercole, e prendere possesso della sua nuova casa. Il corteo avanzava a piccole tappe; Alessandro Borgia in persona “aveva prescritto le stazioni del lungo viaggio: Castelnuovo, Civita Castellana, Narni, Terni, Spoleto, Foligno. Qui doveva trovarsi il duca Guidobaldo o la moglie per accompagnare madonna Lucrezia a Urbino. Di qui poi si doveva muovere attraverso gli Stati di Cesare; e per Pesaro, Rimini, Cesena, Forlì, Faenza e Imola andare a Bologna, per quindi raggiungere il Po e Ferrara. (Gregorovius).
Su Castelnuovo di Porto, prima tappa del corteo nuziale di Lucrezia, si sofferma la scrittrice Maria Bellonci nel romanzo “Lucrezia Borgia”, pubblicato nel 1939: “La sera, toccando il venticinquesimo chilometro videro profilarsi a destra una collinetta fasciata dal grigio dilavato degli olivi e scoprirono tra mura fortificate e torrioni la forma di un campaniletto duecentesco. Era la prima sosta, Castelnuovo di Porto: ed era, per Lucrezia, l’avventura che si sarebbe ripetuta alla fine di tante giornate per quasi un mese”.
 
Fogazzaro. Jenne, Subiaco e la Valle dell’Aniene
Nel 1905, lo scrittore vicentino Antonio Fogazzaro (1842-1911) pubblicò il romanzo “Il Santo”. La storia racconta l’ascesi mistica di Piero Maironi, che dopo una vita dissoluta, fugge dal mondo per diventare monaco benedettino e pregare, lavorare, meditare, espiando le sue colpe nella pace e nell’isolamento del convento; screditato e osteggiato dalle autorità ecclesiastiche per le sue idee di rinnovamento, sarà costretto a lasciare il suo rifugio, morendo a Roma. Il romanzo fu messo all’Indice dei libri proibiti dalla reazione antimodernista di Papa Pio X.
La storia si svolge quasi interamente a Jenne e Subiaco, ma non mancano riferimenti ad altri piccoli centri della Valle dell’Aniene e alla valle stessa, rigogliosa e immersa nel silenzio.
Lo scrittore visitò i luoghi, prima di descriverli. Nel 1903, infatti, scrisse all’amico Tommaso Gallarati Scotti: “Per maggio o giugno medito un breve soggiorno a Subiaco” e “Oggi sono andato a piedi sino a Jenne, una passeggiata di cinque buone ore, fra l’andata e il ritorno, per la selvaggia valle dell’Aniene. Che miseria di paese e che gentilezza di sangue!”.
“L’orizzonte ardeva, dietro il prossimo Subiaco, sulla obliqua fuga dei monti Sabini che da Rocca di Canterano e Rocca di Mezzo vanno verso Rocca San Stefano. Subiaco, l’aguzza catasta di case e casupole grigie che si appunta nella Rocca del Cardinale, si era velata di ombra; non si moveva fronda degli ulivi affollati a tergo della villetta rossa dalle persiane verdi, ritta in testa dello scoglio tondo cui la pubblica via cinge al piede; non si moveva fronda della gran quercia pendente al suo fianco, sopra il piccolo oratorio antico di S. Maria della Febbre. L’aria, odorata d’erbe selvagge e di pioggia recente, spirava fresca da Monte Calvo. Erano le sette e un quarto. Nella conca bella che l’Aniene riga le campane suonarono; prima la grossa di Sant’Andrea, poi le querule di Santa Maria della Valle e in alto, a destra, dalla chiesetta bianca presso la grande macchia, quelle dei Cappuccini, poi altre ancora, lontane”.
“Oltrepassata la croce, montarono in faccia al cielo aperto, fra i dorsi verdi pendenti alla conca romita di Jenne, incoronata là di fronte dalla povera greggia di casupole che il campanile governa. Giovanni era stato a Jenne altre volte e non gli parve diversa perché ora vi dimorasse un Santo e vi si operassero miracoli. Sua moglie, che ci veniva per la prima volta, ebbe l’impressione di un luogo spirante raccoglimento religioso per quel senso di altezza non suggerito da vedute lontane, per quel cielo profondo dietro il villaggio, per la solitudine, per il silenzio”.
“Il rombo dell’Aniene, questo? No, il ruggito dell’Abisso trionfante. Non credeva interamente a quello che vedeva, a quello che udiva, ma tremava come una festuca nel vento e le miriadi di spilli gli camminavano per tutta la persona. Cercò svincolar i piedi dai viluppi di serpi, non gli riuscì. Dal terrore alla collera: «devo potere!» esclamò, forte. Dalla gola fosca di Jenne gli rispose il sordo rumor del tuono. Guardò a quella volta. Un lampo aperse le nubi sopra il negrore del monte Preclaro e sparì. Benedetto si provò di levar i piedi dalle serpi e ancora la leonina voce del tuono lo minacciò”.
Enrico Coleman, Torre Astura.
Moravia e Torre Astura (Nettuno). Passando per Genzano e Anzio.
Nel racconto “Morte al mare”, Alberto Moravia (1907-1990) restituisce una cupa ma seducente immagine della spiaggia di Torre Astura, delle sue onde, del suo cielo e della natura circostante. Lo scrittore ebbe un rapporto intenso e duraturo con il mare, oggetto e sfondo di molte delle sue opere più belle, nonché meta dei suoi giorni di riposo; da Fregene a Sabaudia, da Capri al Cilento, esso viene descritto, nell’imprevedibilità del suo umore, in tutti i suoi colori. In “Morte al mare”, è tumultuoso, grigio e portatore di morte.
La narrazione è contenuta in Racconti dispersi.1928-1951, un’opera che raccoglie sessantanove racconti pubblicati dallo scrittore su giornali, riviste, almanacchi, nel corso di circa un ventennio.
 “Volevo mostrare la spiaggia di Torre Astura a due miei amici che non ci erano mai stati, e così, nonostante il cattivo tempo, si partì di mattina. Il cielo era rannuvolato e verso la marina, tra la nuvola e l’orizzonte, si scorgeva una specie di caligine fosca e rigata che pareva spostarsi e avanzare verso di noi: la pioggia. Dopo Genzano la pioggia, infatti, ci investì, violenta ed effimera. Continuammo la nostra corsa in un’aria fumante, sotto il cielo rimasto basso e minaccioso, per una strada scoscesa cui l’acquazzone non aveva che sfiorato la polvere. Si giunse ad Anzio, tra quinte biancastre di case bombardate ritte contro lo sfondo del cielo di pece; e si andò a mangiare in vista al porto circondato anch’esso di rovine. Le macchine si fermavano davanti al ristorante, all’odore della zuppa di pesce si mescolava il puzzo di benzina, i tavoli erano pieni di gente indomenicata che si godeva l’afa, il tanfo della benzina, le macerie, e l’acqua portuale oleosa e sparsa di detriti. Dopo la colazione si ripartì alla volta di Torre Astura. Si costeggiò un pezzo il mare, o meglio le rovine delle villette che sorgevano una volta sul mare; poi, ad un bivio, si imboccò un sentiero e la macchina prese a correre a ridosso di una selva di pini: tra i rami si vedeva il mare.Risuonò una tromba, mi voltai e vidi una macchina che ci seguiva dappresso. Spinti da questa macchina che vo-leva sorpassarci e non poteva per via della strettezza del sentiero, si andò avanti e avanti tra i pini che si face-vano sempre più bassi e più contorti, sulla sabbia sempre più alta. Il mare adesso si ve-deva benissimo, procelloso, grigio e bianco, con onde e onde che si gettavano sulla spiaggia. Il litorale in quel punto descriveva un semi-cerchio, ad un’estremità, sopra una roccia, si levava il castelletto che dà il nome al luogo”.
Torre Astura è una costruzione d’età medievale posta sulla costa laziale, nel territorio comunale di Nettuno, a circa dieci km a sud-est dal centro abitato. La grande torre pentagonale, molto rimaneggiata, occupa solo una piccola parte della grande struttura attuale. L’intera costruzione, che si presenta come una piccola isola fortificata, ha assunto nel corso del tempo le fattezze di un vero e proprio castello sul mare, con le alte mura perimetrali sia le piccole merlature. La fortezza è collegata alla terraferma tramite un basso ponticello ad arcate realizzato in travertino. Il ponte attraversa un’area archeologica riferita ad una villa di epoca romana, dove è visibile anche una grande peschiera.
 
 
 

 

 

 

XHTML 1.0 Valido!