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Gabriele D’Annunzio, Albano e Nemi
Nell’aprile del 1887, ad un concerto, Gabriele D’Annunzio conobbe Barbara Leoni, al secolo Elvira Natalia Fraternali, che diventò la sua Musa e con la quale ebbe una appassionata relazione clandestina. D’Annunzio all’epoca era già sposato e aveva tre figli.
Cornice di questo travolgente rapporto fu la città di Albano, che con i suoi affascinanti scenari ispirò al Vate uno dei suoi romanzi più noti “Il Trionfo della Morte”. Sotto gli pseudonimi di Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio, il Vate narra la sua relazione con Barbara Leoni o “Barbarella” come era solito chiamarla.
Con lei trascorreva i suoi incontri amorosi ne “Il vecchio albergo di Ludovico Togni, con quel suo lungo androne dalle pareti di stucco marmorizzate e con que' suoi pianerottoli dalle porte verdigne tutti illustrati di lapidi commemorative, inspirava subito un senso di pace quasi conventuale. Ogni suppellettile aveva un aspetto di familiare vecchiezza. I letti, le sedie, le poltrone, i canapè, i canterani avevano forme d'altri tempi, cadute in disuso; i soffitti, dipinti a colori teneri, gialletti o celestini, portavano nel centro una ghirlanda di rose o un qualche simbolo usuale, come una lira, una face, un turcasso; i fiorami su i parati di carta e su i tappeti di lana erano impalliditi, quasi scomparsi; le tende di velo alle finestre pendevano da bastoni sdorati, candide e modeste; gli specchi rococò, riflettendo le antichette imagini in un'appannatura diffusa, davano ad esse quell'aria di malinconia e quasi d'inesistenza, che talvolta danno alle rive gli stagni solinghi”. Molto del romanzo è stato preso dalle esperienze che D'Annunzio visse con la sua amante nei due mesi che trascorsero in quei luoghi.
I Castelli Romani furono per lui fonte perenne di ispirazione artistica e letteraria. Nacque in quei giorni la prima raccolta poetica “Elegie romane”, in cui è contenuta anche un’elegia dedicata ad Albano “Una Sera sui Colli D’Alba” in cui D’Annunzio “si abbandona alla contemplazione del paesaggio che si apriva a lui dalle finestre dell’Albergo Togni dopo un temporale e con la sua donna assorta nel guardare il cielo” (cit. Francesca Ragno).
Sempre nelle Elegie Romane, stavolta ad ispirarlo è il lago di Nemi, che con il suo incanto tenebroso vincean d’un freddo fascino i nostri cuori:
“Era il ritorno. Il sole spandea per i boschi ducali,
precipitando, un fuoco torbido. Ma su l’acque,
chiuse da quel gran cerchio di tronchi infiammati, un pallore cupo regnava. Raggio non le feriva alcuno.
Chi nel divino grembo del lago adunava tant’ira?
Livide, mute, l’acque minacciavano; come d’un lungo sguardo nemico seguivano il nostro passo;
“Era il ritorno. Il sole spandea per i boschi ducali,
precipitando, un fuoco torbido. Ma su l’acque,
chiuse da quel gran cerchio di tronchi infiammati, un pallore cupo regnava. Raggio non le feriva alcuno.
Chi nel divino grembo del lago adunava tant’ira?
Livide, mute, l’acque minacciavano; come d’un lungo sguardo nemico seguivano il nostro passo;
vincean d’un freddo fascino i nostri cuori.
Una paura ignota ci strinse. Pensiero di morte
Illuminò d’un lampo l’anima sbigottita.
Parvemi andar lungh’esso un lido letale, uno Stige;
e dell’amata donna l’ombra condurre meco.
Tutte di nostra vita lontana le immagini vaghe
Si dissolveano; ed ecco, tutto era morte in noi,
tutto; ed il nostro amore, il nostro dolore, la nostra
felicità non altro eran che morte cose.
Oh visione aperta per sempre all’anima mia!
Rapidamente l’acque s’oscuravano.
Senza tremare, immote, opache, celando l’abisso,
più minacciose l’acque parean volgere
al malefizio i cieli. Le nubi piombavano sopra;
stavano i boschi sopra, nel grande orrore.
Quasi era spento il fuoco per l’aria; ma ultima ardeva
Come una face in Nemi rossa la torre orsina.”
Una paura ignota ci strinse. Pensiero di morte
Illuminò d’un lampo l’anima sbigottita.
Parvemi andar lungh’esso un lido letale, uno Stige;
e dell’amata donna l’ombra condurre meco.
Tutte di nostra vita lontana le immagini vaghe
Si dissolveano; ed ecco, tutto era morte in noi,
tutto; ed il nostro amore, il nostro dolore, la nostra
felicità non altro eran che morte cose.
Oh visione aperta per sempre all’anima mia!
Rapidamente l’acque s’oscuravano.
Senza tremare, immote, opache, celando l’abisso,
più minacciose l’acque parean volgere
al malefizio i cieli. Le nubi piombavano sopra;
stavano i boschi sopra, nel grande orrore.
Quasi era spento il fuoco per l’aria; ma ultima ardeva
Come una face in Nemi rossa la torre orsina.”
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