"Ignare" di Luigi Pirandello

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  "[...] Non si curavano più di sapere se, così immobili su quei lettucci, fossero in attesa della guarigione o della morte.
Erano tutte e quattro ferite e fasciate. Ma di che gravità fossero le ferite, non sapevano. Stando immobili, non le sentivano. Pareva a ciascuna di star bene e di poter credere che non fosse più a ogni modo, per nessuna delle quattro, caso di morte.
Ma poi, chi sa?
Non erano più sicure di nulla; nemmeno se quella camera fosse d’un ospedale o dell’infermeria d’un collegio di suore; né ricordavano come, quando, da chi vi fossero state portate.
C’era nella loro memoria un abisso: un vero inferno che s’era spalancato loro davanti all’improvviso, inghiottendole e travolgendole; dove tanti demonii avevano fatto esempio e strazio delle loro carni immacolate. Avevano la vaga impressione d’aver navigato a lungo; e sentivano ancora nelle narici, ogni tanto, quel tanfo particolare, alido, nauseante, che cova nell’interno delle navi; negli orecchi, gli scricchiolii della carcassa enorme galleggiante, agli urti possenti e fragorosi del mare; e avevano la visione confusa d’un porto affaccendato, di grandi alberature non ben ferme sotto grosse nuvole candenti immote su l’aspro azzurro delle acque; e meno confuso il ricordo di strani aspetti, di strane voci; rumori d’argani e di catene.
Ora erano qua [...]"

"Ignare" è una novella, pubblicata da Luigi Pirandello, per la prima volta, nel 1912 in "Terzetti" e raccolta successivamente in "Il viaggio" (1928). Fin dalle prime parole, si entra in un mondo rarefatto e sospeso, nel quale giacciono inermi le protagoniste, quattro suore vittime di una efferata violenza durante una missione nell'isola di Creta.

Ma quello che si svela piano piano è l'intreccio di molteplici violenze fisiche, morali e psicologiche a cui le giovani donne sono da sempre state sottoposte e che avrà tragici epiloghi.

L'orrore della violenza carnale, "per cui più del corpo la loro anima aveva sanguinato", viene "fasciato" dal silenzio, l'immobilità, la negazione di una spiegazione sul proprio futuro. 

Delle quattro suore, solo una, una volta guarita, viene trasferita a Napoli. Le altre, senza che venga loro spiegato nulla, affrontano un faticoso viaggio fino ad una grande villa solitaria, la "grangia del collegio" . Ad accoglierle, Rosaria, la moglie del custode, incinta. Ed ecco che per un caso fortuito si rivela finalmente il nuovo orrore, frutto di un'altra violenza, stavolta psicologica perpretrata sulle tre giovani suore:

             " Si voltarono, nel sentirsi indicate dalla custode, e videro la suora anziana e la conversa parlar piano tra loro; poi la custode prendersi con un gesto d’orrore la testa tra le mani e voltarsi, allargando un po’ le mani, a guardare verso di loro,con la bocca aperta e gli occhi pieni di raccapriccio:
– E lo sanno? lo sanno?

Le tre convalescenti si guardarono negli occhi, angosciate. Quella delle tre, che durante il tragitto non aveva aperto bocca, suor Leonora, ebbe negli occhi come un guizzo di follia; si coprì il volto con le mani, emise un mugolìo sordo fra un tremore delle spalle e delle braccia.
– Perché? – chiese allora, suor Ginevra, volgendo gli occhi azzurri infantili all’altra compagna che s’era recata una mano alle labbra e con gli occhi sbarrati era rimasta come sospesa davanti a un abisso scoperto all’improvviso. "

Suor Leonora sente salire una rabbia feroce: perchè Dio aveva permesso che la violenza altrui rendesse vano il sacrificio, la "violenza che aveva dovuto fare a se stessa per serbare intatta, contro l'insidia della sua propria carne, la sua purezza"?

Ogni ragazza vive diversamente la nuova condizione, adattandosi come l'abito che inizia a sformarsi. Tranne Suor Leonora che fugge dalle preghiere comuni in preda a singhiozzi rabbiosi. Suor Ginevra, la più giovane, allevata dalle suore, "era tutta, nell'abito che indossava"; in un angolo del giardino aveva ritrovato il ricordo della sua infanzia, tutto sommato, serena: "Non concepiva affatto l’orrore che ne provavano le altre due; e le guardava e le spiava negli occhi, quasi sospesa in una paurosa, ignota attesa, soffrendo delle fosche, smaniose ambasce dell’una, delle cocenti lagrime dell’altra".

Ciascuna vive in modo diverso anche il progredire parallelo della gravidanza della custode Rosaria: mentre suor Ginevra e suor Agnese la aiutano a cucire il corredino, suor Leonora non ne vuole sapere.

Col passare dei giorni, le donne si isolano l'una dall'altra, ciascuna prega da sola, ciascuna vive il proprio martirio: per suor Agnese "era appunto questo il martirio: accogliere e maturare nel corpo offerto a Dio quel frutto infame. Ma era in lei; lei lo teneva in grembo, oh Dio! e lo nutriva di sé. Oh Dio! oh Dio! E non avrebbe potuto, non avrebbe dovuto far nulla per lui? per riscattarlo dall’infamia da cui nasceva? Forse il suo latte, forse le sue cure lo avrebbero redento! [...]
Ma Dio, certo, nella sua infinita misericordia, aveva disposto che il martirio di lei, nel tempo ch’ella lo soffriva, giovasse al nascituro, bastasse a mondarlo della colpa originaria, bastassero a lavarlo per sempre di quel sangue osceno le lagrime ch’ella ora versava per l’onta e per il supplizio. Così il suo martirio non sarebbe stato invano"

 Suor Ginevra, invece, cuce la camicina "la contemplava e sorrideva". Inconsapevole, attende.

La nascita del figlio di Rosaria scatena diverse reazioni: dal "sorriso di infinita tristezza" di Agnese, al pensiero di Ginevra ("Eccolo: uno così, tra poco, sarebbe nato da lei. E non sapeva ancor come. Uno così!"), fino alla rabbia, ormai folle e incontenibile di suor Leonora.

Ed arriva la violenza finale: il parto solitario, doloroso, di cui si odono "urli che non parevano umani", il tramestio per il corridoio a cui segue il silenzio. Suor Ginevra apprende nel "pomeriggio che tutte e due le compagne s’erano liberate, e che ora riposavano tranquille. Una domanda angosciosa le affiorò alle labbra, che subito vanì nel silenzio lugubre della villa. Non si sentiva alcun piccolo vagito. La conversa aprì le mani e scosse il capo mestamente, con gli occhi socchiusi."

Un ancora più tragico epilogo per suor Ginevra, la più giovane e minuta:  "grida, grida che strappavano altre grida di pietà e di rivolta, come allo spettacolo d’una spietata atroce sopraffazione contro un timido inerme, che invano si dia per vinto.
Tutt’a un tratto, le grida tacquero nella notte".

L'angoscia soffocante scuote le altre due e le fa accorrere alla celletta ma possono solo vedere il pallido viso di Ginevra: "E pareva che in quel pallore la piccola morta sorridesse d’essersi liberata così."

Ma suor Leonora, "con una mossa da belva", scova in un lenzuolo insanguinato la piccola neonata, fuggendo con lei nella sua cella: "vi si chiuse, e con gioja selvaggia offrì il seno che le scoppiava a quella creaturina.
La Madre Superiora, accorsa alcune ore dopo dalla città, dovette stentare a lungo per persuaderla a riaprire l’uscio. Pareva impazzita; si teneva quella creaturina stretta al seno e gridava:
– La prendo io! la prendo io! O datemi la mia! Butto via l’abito! Dio ha voluto troppo, ha voluto troppo, ha voluto troppo!
Pian piano, dolcemente, quella trovò il verso di sciogliere in lagrime quel fiero ingorgo di demenza; e la piccina fu fatta sparire."

E di nuovo, restano solo pianti e preghiere. 

 

 

Pirandello Luigi, Novelle per un anno, Verona, Arnoldo Mondadori editore, 1957

BIBL CMRC CONS 853 PIR 2

 

Risorse digitali:

Testo (Pirandelloweb)

 

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