Alberto Moravia e Torre Astura, passando per Genzano e Anzio

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 Nel racconto “La morte al mare”, Alberto Moravia (1907-1990) restituisce una cupa ma seducente immagine della spiaggia di Torre Astura, delle sue onde, del suo cielo e della natura circostante. Lo scrittore ebbe un rapporto intenso e duraturo con il mare, oggetto e sfondo di molte delle sue opere più belle, nonché meta dei suoi giorni di riposo; da Fregene a Sabaudia, da Capri al Cilento, esso viene descritto, nell’imprevedibilità del suo umore, in tutti i suoi colori. In “Morte al mare”, è tumultuoso, grigio e portatore di morte.

La narrazione è contenuta in “Racconti dispersi. 1928-1951”, un’opera che raccoglie sessantanove racconti pubblicati dallo scrittore su giornali, riviste, almanacchi, nel corso di circa un ventennio.

 “Volevo mostrare la spiaggia di Torre Astura a due miei amici che non ci erano mai stati, e così, nonostante il cattivo tempo, si partì di mattina. Il cielo era rannuvolato e verso la marina, tra la nuvola e l’orizzonte, si scorgeva una specie di caligine fosca e rigata che pareva spostarsi e avanzare verso di noi: la pioggia. Dopo Genzano la pioggia, infatti, ci investì, violenta ed effimera. Continuammo la nostra corsa in un’aria fumante, sotto il cielo rimasto basso e minaccioso, per una strada scoscesa cui l’acquazzone non aveva che sfiorato la polvere. Si giunse ad Anzio, tra quinte biancastre di case bombardate ritte contro lo sfondo del cielo di pece; e si andò a mangiare in vista al porto circondato anch’esso di rovine. Le macchine si fermavano davanti al ristorante, all’odore della zuppa di pesce si mescolava il puzzo di benzina, i tavoli erano pieni di gente indomenicata che si godeva l’afa, il tanfo della benzina, le macerie, e l’acqua portuale oleosa e sparsa di detriti. Dopo la colazione si ripartì alla volta di Torre Astura. 

Si costeggiò un pezzo il mare, o meglio le rovine delle villette che sorgevano una volta sul mare; poi, ad un bivio, si imboccò un sentiero e la macchina prese a correre a ridosso di una selva di pini: tra i rami si vedeva il mare. Risuonò una tromba, mi voltai e vidi una macchina che ci seguiva dappresso. Spinti da questa macchina che vo-leva sorpassarci e non poteva per via della strettezza del sentiero, si andò avanti e avanti tra i pini che si face-vano sempre più bassi e più contorti, sulla sabbia sempre più alta. Il mare adesso si ve-deva benissimo, procelloso, grigio e bianco, con onde e onde che si gettavano sulla spiaggia. Il litorale in quel punto descriveva un semi-cerchio, ad un’estremità, sopra una roccia, si levava il castelletto che dà il nome al luogo”.
 
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