Giorgio Bassani e Cerveteri

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 Lo scrittore ferrarese Giorgio Bassani (1916-2000) si trasferì a Roma alla fine del 1943, ma restò sempre legato alla sua città d’origine, tanto da metterla costantemente al centro della sua produzione letteraria. Il suo fu un legame forte non solo con la città, ma anche con la sua comunità ebraica, con le sue famiglie, le sue sofferenze, la sua storia.

Nel prologo de “Il giardino dei Finzi-Contini”, infatti, il protagonista-narratore racconta di come, nel 1957, durante una gita domenicale a nord di Roma,  sia stato raggiunto dal forte desiderio di scrivere della famiglia di Micòl e Alberto, i Finzi-Contini, e di quanti abitarono e frequentarono la loro casa, in Corso Ercole I d’Este a Ferrara.

Dopo aver percorso la via Aurelia in auto e aver passeggiato lungo l’arenile a qualche chilometro da Santa Marinella, il narratore e i suoi amici si addentrarono nella necropoli di Cerveteri; le tombe etrusche, in particolare quella monumentale dei Matuta (in realtà Matunas, la c.d. Tomba dei Rilievi), gli riportarono alla memoria il cimitero ebraico di Ferrara, in fondo a via Montebello, e l’imponente tomba familiare rimasta quasi vuota per la deportazione della famiglia cui apparteneva, quella, appunto, dei Finzi-Contini.

 Fu durante una delle solite gite di fine settimana. Distribuiti in una decina d’amici su due automobili, ci eravamo avviati lungo l’Aurelia subito dopo pranzo, senza una meta precisa.

Passavamo ora vicini ai cosiddetti montarozzi di cui è sparso fino a Tarquinia ed oltre, ma più dalla parte delle colline che verso il mare, tutto quel tratto del territorio del Lazio a nord di Roma, il quale non è altro, dunque, che un immenso, quasi ininterrotto cimitero. Qui l’erba è più verde, più fitta, più scura di quella del pianoro sottostante, fra l’Aurelia e il Tirreno: prova questa che l’eterno scirocco, che soffia attraverso il mare, arriva quassù avendo perduto per via gran parte del salmastro, e che l’umidità delle montagne non lontane comincia a esercitare sulla vegetazione il suo influsso benefico.

«Dove stiamo andando?» chiese Giannina.

Marito e moglie sedevano entrambi nel sedile anteriore, con la bambina in mezzo. Il padre staccò la mano dal volante e la posò sui riccioli bruni della figlia.

«Andiamo a dare un’occhiata a delle tombe di più di quattro o cinquemila anni fa» rispose, col tono di comincia a raccontare una favola, e perciò non ha ritegno a esagerare nei numeri. «Tombe etrusche». [...]

 Scendemmo giù nella tomba più importante, quella riservata alla nobile famiglia Matuta: una bassa sala sotterranea che accoglie una ventina di letti funebri disposti dentro altrettante nicchie dalle pareti di tufo, e adorna fittamente di stucchi policromi raffiguranti i cari, fidati oggetti della vita di tutti i giorni, zappe, funi, accette, forbici, vanghe, coltelli, archi, frecce, perfino cani da caccia e volatili di palude. […] Varcata la soglia del cimitero dove ciascuno di loro possedeva una seconda casa, e dentro questa il giaciglio già pronto su cui, tra breve, sarebbe stato coricato accanto ai padri, l’eternità non doveva sembrare un’illusione, una favola, una promessa di sacerdoti. Lì, tuttavia, nel breve recinto sacro ai morti famigliari; nel cuore di quelle tombe dove, insieme coi morti, ci si era presi cura di far scendere molte delle cose che rendevano bella e desiderabile la vita; in quel’angolo di mondo difeso, riparato, privilegiato: almeno lì […] nulla sarebbe mai potuto cambiare.

 Quando ripartimmo era buio.

Da Cerveteri a Roma non c’è molto, per coprire la distanza basta di solito un’ora d’auto. Quella sera, però, il viaggio non fu così breve. […] Fummo costretti a procedere a passo d’uomo. Ma già, ancora una volta, nella quiete e nel torpore (anche Giannina si era addormentata), io riandavo con la memoria agli anni della mia prima giovinezza, e a Ferrara, e al cimitero ebraico posto in fondo a via Montebello. Rivedevo i grandi prati sparsi di alberi, le lapidi e i cippi raccolti fittamente lungo i muri di cinta e di divisione, e, come se l’avessi addirittura davanti agli occhi la tomba monumentale dei Finzi-Contini. […]

E mi si stringeva più che mai il cuore al pensiero che in quella tomba, istituita, sembrava, per garantire il riposo perpetuo del suo primo committente  -di lui, e della sua discendenza- uno solo fra tutti i Finzi-Contini che avevo conosciuto e amato io, l’aveva poi ottenuto, questo riposo. Infatti non v’è sepolto che Alberto, il figlio maggiore [...]; mentre Micòl, la figlia secondogenita, e il padre professor Ermanno, e la madre signora Olga, e la signora Regina la vecchissima madre paralitica della signora Olga, deportati tutti in Germania nell’autunno del ’43, chissà se hanno trovato una sepoltura qualsiasi.

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