Pasolini e i Castelli Romani

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Nei suoi primi anni romani, dal 1951 al 1955, Pier Paolo Pasolini insegnò Lettere presso la Scuola Media Parificata “Francesco Petrarca” di Ciampino. Durante quegli anni divenne assiduo frequentatore dei Castelli Romani. Vi trascorreva il suo tempo libero: lo si poteva incontrare al bar Carones di Albano, dove si recava a prendere il caffè, o a passeggiare lungo le sponde del lago.

Agli inizi degli anni sessanta una comunità letteraria di scrittori e intellettuali ha animato e abitato la Capitale. Tra questi ci furono, tra gli altri, Giorgio Bassani, Carlo Emilio Gadda, Natalia Ginzburg, il poeta Aldo Penna, Anna Maria Ortes, Alberto Moravia, la moglie Elsa Morante e Pasolini. Questi ultimi tre, legati da affetto e stima letteraria divennero amici e compagni di viaggi e di avventure. In un racconto intitolato “Cronaca di una giornata” , pubblicato sul quotidiano “Paese sera”,  nel dicembre 1960 e inserito in "Storie della città di Dio. Racconti e cronache romane (1950-1966)", Einaudi, Torino 1992, Pasolini traccia il resoconto di una giornata particolare ai Castelli in compagnia dei suoi amici:

 Devo andare, alle undici e mezzo, a prendere Elsa Morante e Moravia, per poi andare insieme ai Castelli.[…] C’era quell’aria umida che c’è di solito nei giorni di pioggia a Milano, ma che qui a Roma si scalda, e diventa una specie di bagno-maria che fa bene alla pelle, la ingrassa, la tira, e non soltanto a quella esterna, ma anche a quella interna, dei visceri. E fa venire un grande appetito, una gran voglia di andare in cerca di avventure. Pioveva, ma sapete com’è la pioggia qualche volta, un dolce fenomeno celeste per cui, dal cielo, cade dell’acqua, e quest’acqua, leggera leggera, dà a tutto un colore grigio, splendido, chiazzato di argento, o di bianco, un tepore di piscina, un sapore di crescenza. Andavamo poi a fare una cosa piacevole, ai Castelli. Sicché per strada si parlava, si parlava. Finalmente si discuteva senza litigare, più chiari, e forse ingenui, che in tutti i referti letterari che ci erano stati in questi mesi richiesti, con la gioia di aiutarci a capire. E pareva che le nostre rispettive esperienze avessero la magia di quella pioggia: estraevamo da ogni cosa tutto quello ch’essa poteva dare, la coloravamo intensamente – come colora l’umido – e nel tempo stesso l’addolcivamo, immergendola in quel rigore riposante di pittura tonale. Divoriamo l’Appia, siamo a Albano – dove poi appunto, dovremo tornare per la nostra faccenda –, voliamo su Ariccia, aggrappata al suo vertiginoso ponte sul vuoto di un vulcano defunto, poi lago defunto, e ora feconda vallata funeraria dolcemente spalancata sul mare. E giungiamo a Genzano: alla pappatoria. A Genzano c’è l’unico posto dove Gadda non potrebbe accusarmi di mancare della «componente epicurea»: divento veramente un goloso buongustaio. Sarà che si mangia in modo stilisticamente rigoroso: la lista dell’ordinazione è quasi una poesia, quanto a rigore di lingua.[…]

Tornati ad Albano, imbocchiamo la strada di Anzio. Le case intorno sono vecchie, del colore di cartone bagnato che hanno i luoghi papalini: incollate una all’altra dal salnitro e dalla miseria: ma belle, con gli ultimi sbocchi di verde tra i muri. Subito dopo, a sinistra, si apre la vallata sotto Ariccia (ecco il ponte laggiù, con le sue tre file di arcate): una vallata curiosamente piatta, lavorata da un orologiaio, in mille piccoli orti, campetti, vigne, fossatelli, mucchi cesellati di olivi, cespugli d’oro terroso, capannucce. In fondo a questa vallata, prima della Cecchina, è il posto che cerchiamo. Si vede, in fondo, sotto i nuvoloni scomposti, una specie di colata d’oro bianco: la linea del mare[…]”

 

Ma quando ci si perde nella solitudine di queste campagne selvagge, quando tutti i nostri ricordi umani si consumano contro il pallore scabro delle rocce, allora la vita prigioniera delle cose, degli alberi, delle montagne fa pressione su di noi con le sue mille Forra”.

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