Federigo Tozzi e Sant'Oreste
Lo scrittore senese Federigo Tozzi (1883-1920) si trasferisce a Roma nel 1914. Durante l’estate del ’19, pochi mesi prima di morire, percorre la campagna romana dal mare di Maccarese fino Sant’Oreste e il monte Soratte, riscoprendone la selvaggia bellezza. Descrive le sue escursioni di quei giorni all’amico Cavacchioli in “Campagna romana”, un racconto contenuto in “L’amore. Novelle”.
Di seguito si riporta il brano che descrive l’arrivo a Sant’Oreste e la successiva, suggestiva, ascesa al monte Soratte:
“Ma andavamo anche sul Monte Soratte. Scesi dal tranvai, alla stazione di Sant’Oreste, prendevamo su per una oliveta scura e immobile; addossata sotto il macigno crudo e tagliente. Prima, bisogna arrivare al paese di Sant’Oreste, le cui case hanno lo stesso colore della pietra dove stanno a picco su una vallata che si stende a perdita d’occhio. Per entrare in paese bisogna varcare la porta; ma c’è una tabella di legno dov’è scritto:
È vietata l’introduzione e la circolazione degli animali suini nell’interno del paese.
Perciò, noi ci guardavamo sbigottiti e restavamo di fuori.
Ci si ficcava, invece, dentro la trattoria; che è di fianco. Le pareti hanno un colore turchiniccio e, in fondo, dietro il bancone padronale, c’è il busto in gesso di Vittorio Emanuele II, tra due grandi corni di bue e sopra una mensola verde sovraccarica di bottiglie e di scatole da conserva. L’ostessa prima non risponde; poi borbotta sottovoce, scappando: poi intende a traverso; e, alla fine, data un’occhiata che vorrebbe divorarci vivi, si decide a cavare la voce. E, allora, si capisce che è una burbera molto buona e tranquilla.
Fatto uno spuntino e prese le provviste, cominciavamo l’ascensione del Soratte. Dura un’ora o poco più; ma noi la facevamo anche in meno; non badando a qualche sdrucciolone e a qualche ginocchiata. L’aria si fa più leggera quasi ad ogni passo; e la vallata del Tevere, dalla parte opposta a quella donde siamo saliti fino al paese, comincia a spiegarsi senza usura dinanzi a una meravigliosa vista di montagne; e sono tante che per avvedersi di tutte, senza saltarne nessuna, bisogna guardarle a una per volta. Ma più che si guardano e più se ne scoprono; e ognuna sembra desiderosa di essere la più bella. Il cielo e l’aria vi stanno sopra come se avessero paura di toccarle; e solo il vento s’arrischia, almeno a sentirselo passare rasente gli orecchi, a andare fino là senza perdere la strada. Il Soratte, durante l’estate, è tutto fiorito. Le eriche rosse escono dai buchi della selce; e, qualche volta, ci sono anche certe campanule pallide che s’attorcigliano come ghirlandette. Testucchi e lecci nani, a cespugli, crescono sul fianco del monte, dalla parte del Tevere; e il loro colore s’incupa di mano in mano che scende giù nella vallata, insieme con il mentastro e la nepitella. L’ombra del monte è così grande che il sole si stende soltanto di là dal fiume; che, di lassù, pare fermo. Mentre, dalla parte di Roma e del mare, la vallata, se è un poco nebbiosa, abbarbaglia e luccica in tanti seni di tutte le dimensioni. Il silenzio fa udire quel che si pensa. […]”
Risorse digitali
Lettura ad alta voce (nella prima parte, descrizione del litorale romano; invece, dal minuto 14,44 arrivo a Sant’Oreste)
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