Gabriele D'Annunzio e Ardea

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 “Forse che sì, forse che no” (1910) è l’ultimo romanzo di Gabriele D’Annunzio. Pur essendo ambientato prevalentemente a Mantova, nel corso del lungo flashback che ripercorre le vicende eroiche dei due protagonisti maschili, Paolo e Giulio, si menziona spesso Ardea, quale luogo di mito e memoria, tra le vicende leggendarie di Turno e Enea e il sogno del superuomo di volare sopra la nube. Presso la piana di Ardea, infatti, i due amici sperimentano in volo una macchina leggera e potente "la cui ombra somigliava l'ombra dell'airone", che, da quel momento in poi, sarà chiamata appunto, l’Ardea, nel gioco di parole tra airone e il suo corrispettivo latino, di ovidiana memoria, ardea.

« Il suo grido, le sue ali di color cenere, la sua magrezza,
tutto ricorda la città distrutta dai nemici.
Ed infatti, d'Ardea il nome ancor gli resta.
Con le penne del suo uccello Ardea piange la sua sorte»
(Ovidio, Metamorfosi, XV.)

“Da principio avevano costruito apparecchi semplici, veramente dedàlei, privi di forza motrice, simili a quelli usati dai primi esperimentatori nelle prime prove, non affidati se non alla resistenza dell'aria, non equilibrati se non dalle inclinazioni istintive del corpo sospeso; e, per addestrarsi al veleggio, avevano scelto nel Lazio il ripiano di Àrdea, la rupe di tufo tagliata ad arte, l'arce italica di Turno nomata dal nome dell'uccello altovolante. Qual posatoio più atto all'esperimento
periglioso? Tutto esprime la forza e la grandezza nella muraglia della prisca città fondata da una schiera d'Argivi spinti alla spiaggia dal vento di mezzodì. La valle dell'Incastro è una conca piena del medesimo silenzio ch'empie i sepolcri cavi dei Rutuli primevi; la chiostra dei monti, dagli Aricini ai Lanuvini, dagli Albani ai Veliterni, è come un ciclo di miti impietrati; nell'epica luce sembrano vaporare gli spiriti delle stirpi; i massi squadrati hanno per eterno cemento la parola di Vergilio: “et nunc magnum manet Ardea nomen”.
I due compagni avevano quivi sentito, meglio che in qualunque altro luogo della terra, come la morte sia un'operaia gioiosa.
Dopo prove e riprove, avevano compiuta una macchina leggera e potente la cui ombra somigliava l'ombra dell'airone. E le era rimasto il bel nome italico: Àrdea; e nel nome il proposito di volare sopra la nube”.
[…]

E gli risonò all'improvviso nel centro dell'anima la voce del buon compagno che determinava la rotta: «Ponente una quarta a libeccio!» E rivide il ripiano di Àrdea la rupe di tufo tagliata ad arte, la valle dell'Incastro, la chiostra dei Monti Laziali. E rivisse i giorni della gran febbre operosa, e l'ardore delle speranze, e l'audacia dei sogni, e la grandezza del sogno più disperato”.
[…]
E vide il ripiano di Àrdea, la rupe di tufo tagliata ad arte, la valle dell'Incastro, la chiostra dei Monti Latini, e una colonna dorica rigettata dal mare di Circe e portata lassù a forza di buoi e piantata nella cittadella e sopraviimposto il bronzo sacrificale e trionfale. E imaginò un volo infinito, sopra un'onda che come quella del Lete gli toglieva ogni memoria della riva di giù.

 

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